Da qualche tempo, nel disperato tentativo di migliorare il mio misero spagnolo, sto guardando film “ispano-parlanti”. Ne ho visti molti tra spagnoli, argentini, messicani, colombiani, brasiliani, boliviani e cubani e, alla fine, ciò che pensavo essere un mero esercizio linguistico si è trasformato in un forte interesse e una grande curiosità. Anche senza essere dei critici, infatti, è difficile non notare una caratteristica che accomuna questo cinema ancorché, come categoria, sia effettivamente estremamente vasta e varia. Innanzi tutto, ho scoperto l’esistenza di un’infinità di grandissimi registi e attori, spesso anche giovani, eppure già bravissimi.
Non posso dire di esserne rimasto sorpreso: sospettavo che nel mondo ci fosse tanta gente in gamba oltre a quella che già conosco, ma sinceramente non mi aspettavo una tale dimensione del fenomeno e, soprattutto, che questo cinema relativamente povero di mezzi potesse scatenare un’energia così straordinaria da storie semplici e “minimaliste”, eppure così profonde e ricche di contenuti. Ciò che questi film raccontano, nella schiacciante maggioranza, sono storie “normali” di persone “normali”: impiegati, pensionati o addirittura contadini, e le trame rivelano senza sotterfugi o stratagemmi lo spaccato della società in cui esse si muovono. Raccontano molte più cose di un libro di storia, di un trattato o di una statistica sociologica. Una sorta di… “neo-neorealismo”, nel quale però risulta totalmente assente la componente “macchiettistica” dei personaggi, che ci appaiono invece così “verosimili” da risultarci solo e semplicemente veri, non già l’esemplificazione di un qualche fenomeno. Storie semplici non significa banali, anzi: per tenere in piedi una storia semplice occorrono chiarezza di idee, forza narrativa, capacità tecniche e linguistiche e consapevolezza dei propri mezzi.
Da queste deriva, come accennavo, l’energia di questi film. Non ci posso fare niente: non sono riuscito a evitare di fare alcune considerazioni e poi di pormi delle domande. Molti di questi film che ho visto – se non tutti – non sono mai usciti in Italia. Certo, come ogni processo industriale anche la distribuzione cinematografica presenta aspetti complessi, problemi e difficoltà oggettive, ma è fatale e innegabile che i criteri che la guidano rispondono alle onnipresenti logiche di mercato. Come spesso capita, siamo costretti a porci l’eterno dilemma: è il mercato che va incontro ai gusti del pubblico o sono i gusti del pubblico che vanno incontro al mercato? E in subordine, è giusto assecondare sempre e comunque i gusti del pubblico? Se questa regola valesse sempre, oggi nei licei non si insegnerebbero più né greco né latino…
Ho voluto fare un gioco e togliermi un piccolo sfizio: ho fatto una microscopica micro-statistica su provenienza e tipologia dei film attualmente in visione nelle sale di Torino. Ho scoperto che, sabato 19 gennaio, dei ventisei film in programmazione in città, solo cinque erano italiani (e dire che siamo in Italia, credo!), due erano francesi, due inglesi, uno spagnolo, uno arabo, uno bosniaco, uno coreano, uno danese e ben tredici americani. Di questi ultimi, quattro erano per bambini, uno era di animazione, uno di fantascienza, uno era un western, due erano thriller, due erano drammi e due commedie. Ok, siamo d'accordo: gli americani hanno più idee, le migliori scuole e i migliori attori, producono di più e sono più bravi. Ma siccome… è facile essere bravi e belli quando si è ricchi, mi scappa anche di dire che sono più ricchi che bravi. Ma non lo dico per invidia! Mi chiedo: perché siamo “costretti” a vedere storie impossibili di personaggi improbabili, connotati sistematicamente con caratteri “epici”, o comunque straordinari, che compiono gesta eroiche anche quando si tratta di vivere la vita di tutti i giorni? Il protagonista può essere ricco o povero, ma sembra sempre che sia lì proprio solo per recitare il suo copione, e non il personaggio di una storia.
E dire che, come cultura e sensibilità, l’Italia è enormemente più vicina proprio a quei paesi “ispano-parlanti” che citavo in apertura, rispetto ai paesi che ci riempiono le sale con i loro “roboanti” film d’azione, animazione, fantascienza e western in cui, sistematicamente, la modalità del racconto finisce per prevaricare il racconto stesso, quando addirittura non lo annulla. Non lo sapevo o, quantomeno, non conoscevo la proporzione di questo fenomeno, eppure già da qualche tempo, ogni volta che mi appresto ad andare al cinema, mi scopro insofferente alla selezione di titoli tra i quali siamo costretti a scegliere, e mi vien voglia di scartare a priori tutti quei film dei quali, in un certo qual modo, mi sembra di conoscere già sviluppo ed esito. I miei amici mi dicono che non posso precludermi la possibilità che uno di quei film possa piacermi, ma io rispondo che il problema, semmai, è cosa mi perdo a non vedere gli altri senza nemmeno averlo deciso io...
Quello della distribuzione è un annoso problema che attanaglia da sempre il mondo del cinema: alle cosidette “major” che dettano le regole del gioco, si affiancano distributori indipendenti che con alterna fortuna propongono contenuti alternativi a quelli condizionati dal bisogno di “cassetta” e, ai problemi oggettivi si aggiungono, purtroppo, anche quelli attinenti alla politica e che riflettono le criticità ben note per tutti gli ambiti della cultura, dalla scuola allo spettacolo.
Le novità tecnologiche, che offrono un nuovo ulteriore sviluppo del dibattito, rappresentano per alcuni un problema e per altri un’opportunità. In questo piccolo spazio abbiamo appena lambito una questione che appare decisamente articolata e complessa; volendo, possiamo tentare di approfondirla in futuro, ma nel frattempo possiamo comunque dire, laconicamente ma al riparo da ogni possibilità di dubbio, che il problema esiste e noi, intanto, ci stiamo perdendo una montagna di film meravigliosi…

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