E' più forte di me: non sono mai
riuscito a vedere nei Paesi più ricchi e potenti la personificazione
della ragione e, in quelli più poveri, della colpa. Dai ricorsi della
Storia, semmai, mi sembra di leggere il contrario. Non ho mai pensato
che aver successo significhi automaticamente aver ragione, così come
essere povero non significa essere un fallito. Se devo scegliere,
preferisco gli ultimi, specialmente quando i primi sono arroganti. Che
la povertà sia colpa dei poveri deve essere dimostrato; che i ricchi
vorrebbero farlo credere, no.
Ciò detto per essere chiari. Parlando
di Cuba, anche se a tratti potrò sembrare imparziale ed equilibrato (!),
si sappia che sono di parte. Dalla parte di Cuba.
Sono di parte ma
non sono fanatico, né integralista o vetero-qualcosa: quella stessa Cuba
che per il mondo intero si trova in permanente stallo tra mito e
disinganno - sapientemente combinati dall'ideologia post-ideologica - è
per me tutt'altro che un mito, meno che mai un inganno. Fatta di sangue e
carne viva che soffre di una guerra (tuttora in atto e che pochi
ammettono) e dei suoi stessi connaturati problemi, Cuba è per me una
pietra angolare, l'emblema della lotta quotidiana del "mondo di sotto",
di una resistenza combattuta sui contenuti e lontana anni luce dalle
nostre miserie giocate sulla forma e di nessuna sostanza.
Lo dico subito e lo grido in faccia
soprattutto a coloro che, quando lo ripeto, mi guardano con aria di
commiserazione alzando un angolo della bocca: il dibattito sociale,
politico, economico e culturale, a Cuba, è più aperto e meno ipocrita
che da noi. Lì si parla, si grida e si impreca contro ogni cosa, ma
scuole e ospedali restano in piedi, mentre le nostre democratiche
manfrine seminano macerie.
Cuba è la dimostrazione pulsante che
esiste un altro modo di guardare alle cose. Cuba ha preparazione e
cultura per parlare e non parlare a vanvera. Come ognuno di noi che
attraversa la parabola della propria vita con un cliché che famiglia e
società gli hanno appiccicato addosso e che spesso non è neanche in
relazione con l'evidenza dei fatti, anche a Cuba non è bastato cercare
di scrollarsi di dosso la narrazione che le è stata "appioppata". La
feroce dittatura, la società militarizzata e abbrutita, lo stato di
polizia, l'intimidazione, non corrispondono neanche lontanamente alla
realtà effettiva di Cuba e, ammesso che sia esistito un momento storico
in cui tali cliché potevano essere evocati, è invece sicuro che non è
mai esistito un dibattito sufficientemente autentico per poterne parlare
seriamente: nessuno sarebbe mai stato disposto a comprenderne le
ragioni, semplicemente perché capire le ragioni di Cuba avrebbe
necessariamente rivelato le responsabilità dell'Occidente.
Lo
confesso, mi fanno un po' ridere quelli che danno di Cuba una
definizione e poi cercano di farcela stare dentro, dal turista al
"nostro corrispondente a Cuba" che scrive da Miami, per arrivare ai "me
l'ha detto un amico" e ai grandi "analisti". Cuba è tutto e poi anche il
contrario, esattamente come tutti i Paesi del mondo. Per non apparire
ridicolo, nessun fine pensatore nostrano oserebbe affermare: "Ho capito
l'Italia!". Chissà perché invece Cuba può essere chiusa in un cliché? La
società cubana è complessa, viva e in movimento, sicuramente più viva e
in movimento delle nostre società, sempre più simili a mosche cieche
impazzite che per cercare nuove vie sbattono continuamente contro il
vetro. Noi cerchiamo vie facili e veloci, con l'effetto paradossale e
grottesco che nella democratica riffa dei diritti vince sempre chi ce li
ha già: se hai più soldi, puoi permetterti più "numeri". A Cuba vie
facili e veloci non ce ne sono e, per giunta, si è scelta la via più
lenta, complessa e faticosa: quella della solidarietà interna e
internazionale.
Seppure a prima vista possano sembrare distanti, il
turista che torna a casa e ti racconta di aver incontrato tanti cubani
che si lamentano del governo e il grande inviato che a Cuba cerca
sistematicamente la voce della "dissidenza", hanno in comune le stessa
ingenua ignoranza: delle dinamiche sociali in generale e della realtà
cubana in particolare. E la stessa "pelosa" assenza di autonomia
critica.
Come se in Italia non esistessero italiani che si lamentano
del governo. Come se uno straniero in visita in Italia, incocciando in
un leghista qualsiasi, pretendesse di aver capito lo "spirito di un
popolo". Come se si continuasse a far finta di non sapere che certa
dissidenza è costruita e organizzata.
A Cuba ognuno può trovare ciò
che cerca, ovvero la conferma dei propri preconcetti, ma la stessa cosa
può capitare in qualsiasi Paese del mondo. Occorre fare un piccolo
sforzo per scoprirlo, ma i cubani non li convinci con quattro leggine,
un job act e una quota rosa. Quelli sono in rivoluzione permanente da
150 anni e hanno smesso la guerriglia solo da 60. Non può essere un
caso.
Nessun cubano - dico nessuno - nega e nasconde i problemi,
anche drammatici, dell'economia del Paese. I cubani hanno
consapevolezza, conoscenza e capacità di leggere e interpretare la loro
propria Storia. Per questo mi fanno ridere quelli che vorrebbero
insegnare loro la strada per la felicità. Per questo, ai miei occhi,
Cuba appare un gigante se confrontata con noi, che invece non siamo mai
stati capaci di dare un nome ai nostri nemici, come stragi, attentati e
mafie - per citare solo le sofferenze più strazianti - stanno lì a
dimostrarci, seppur sepolte sotto una montagna di menzogne e ipocrisia.
Per questo spesso mi chiedo di cosa parlino i nostri fini pensatori
dalle colonne dei nostri giornali e dai microfoni dei telegiornali
quando parlano di politica. Che Paese è quello che non sa dare una
spiegazione al proprio dolore? Di cosa parla, quando parla di progetti e
futuro, chi non sa da quale passato proviene?
Cuba queste cose le
sa, ed è per questo che sul suo futuro - a dispetto di tutto e delle
bestialità che sul suo conto si sprecano - nutro un grande ottimismo.
Cuba è un Paese normale. E' un concetto semplice, eppure
difficilissimo da spiegare ai più. Come dicevo, a Cuba si parla, si
discute, si impreca. C'è gente politicizzata e c'è gente che se ne frega
di qualsiasi cosa. Tutte le confessioni religiose si riuniscono e si
esprimono. I gay vivono alla luce del sole e a Santa Clara c'è perfino
un gay pride. La sicurezza è a livelli impensabili per le nostre
società. Non esistono prigionieri di coscienza e perfino la Chiesa e
Amnesty International lo hanno finalmente ammesso. Si dirà: effetto del
confronto con l'Occidente a cui Cuba è stata "costretta". Non è così, il
problema è un altro. Il problema è il senso che si dà alle parole. Non
sarebbe neanche tanto difficile capirlo, basterebbe fermarsi a
riflettere sul significato che hanno assunto oggi nelle nostre società
parole come "democrazia" o "missione di pace". Sarei stato curioso di
vedere come avrebbe reagito se, invece di Cuba, fosse stato un qualsiasi
Paese occidentale a subire continuamente, per 60 anni, attacchi di
tutti i tipi: dagli sbarchi di truppe d'assalto agli attentati contro
aerei della compagnia di bandiera, dai missili e dalle bombe contro gli
alberghi alla mistificazione mediatica, dalla diffusione di trasmissioni
radiofoniche e televisive clandestine alle contaminazioni dal cielo di
pascoli e coltivazioni e ai tentativi di assassinare il Capo di Stato.
Oppure se un qualsiasi Paese del "nostro" mondo fosse stato provocato
con l'arresto di cinque suoi cittadini infiltrati nei centri operativi
del terrorismo, ovvero nelle mafie residenti all'estero finanziate da
"organizzazioni umanitarie" conniventi con le intelligence straniere.
Nel 1998, cinque cubani che cercavano di intercettare e sventare le
trame terroristiche progettate in Florida, furono arrestati dall'FBI pur
senza aver mai carpito segreti di Stato o messo in pericolo la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti, dopo che Fidel Castro, con
l'intercessione di Gabriel Garcia Marquez presso Clinton, suo amico,
invitò il Dipartimento di Stato americano alla cooperazione per il
disarmo delle bande criminali che i Cinque avevano messo a nudo. In una
delle infinite azioni di quelle "organizzazioni umanitarie" che avevano
causato più di 2000 mutilati e 3000 morti sul suolo cubano, morì anche
un ragazzo italiano, Fabio Di Celmo. Il mandante di quell'azione è noto,
è reo confesso e circola liberamente nelle strade di Miami. Il Governo
italiano non ne ha mai chiesto l'estradizione. La memoria di Fabio Di
Celmo in Italia non solo si è persa: non è mai stata cercata. A Cuba è
onorata ancora oggi, a vent'anni di distanza. Qualcuno, da noi, sa
qualcosa di questa storia, tra le tante?
Ecco, appunto: è una questione di significato attribuito alle parole e di come si raccontano o non si raccontano le storie.
Ciò che a Cuba non è "normale", invece, è il senso di identità, di
orgoglio, di appartenenza di popolo, di indipendenza, di desiderio di
autodeterminazione. Tutti sentimenti che farebbero piacere anche a noi,
ma che noi non siamo più in grado di esprimere.
I cubani sono liberi, fanno il cavolo che gli pare. Se vogliono, camminano nudi e sulle mani.
Ho avuto l'occasione di incontrare tre cubani con i quali ho potuto
condurre una mia personale piccola "indagine", una cosa di cui sentivo
il bisogno per mettere in ordine ciò che in questi anni ho letto,
studiato e scoperto. Sono partito da ciò che mi è toccato sentire dai
nostri telegiornali nei giorni del funerale di Fidel Castro. Ho detto ai
tre: "Non credo di dirvi cose che già non sapete". "E' probabile", mi
hanno risposto, "ma siamo curiosi!". Così ho raccontato: "L'inviato di
uno dei nostri maggiori telegiornali, mostrando il corteo funebre, ha
detto che la gente SEMBRAVA triste e che, data la moltitudine,
evidentemente stava seguendo l'esortazione del Partito a partecipare".
Ho visto dipingersi sui loro volti la stessa identica reazione: per un
milionesimo di secondo i loro occhi si sono stretti come ad annunciare
un'esplosione di rabbia, ma immediatamente dopo hanno cambiato piega.
Con un sorriso autenticamente rilassato, uno di loro mi ha risposto:
"Dovresti spiegare ai tuoi amici che non si dovrebbe mai parlare di cose
che non si sanno e non si capiscono. E' probabile che conoscano poco e
male la vita di Fidel, ma è certo che non sanno nulla dei Cubani: se a
un Cubano dici di fare una cosa, puoi star sicuro che farà il
contrario!". E l'altro: "Il Partito? Beh, il corteo sarebbe stato ben
scarno, allora. Lo sai che gli iscritti al Partito non arrivano al 10%
della popolazione, vero?". E poi, rivolto verso il suo amico:
"Quell'inviato avrà probabilmente visto le immagini dei cubani di Miami
che esultavano, ed evidentemente non ha saputo darsi altra migliore
spiegazione di quella che i media internazionali offrono da sempre...".
Anche l'altro amico sorride. Sembra impaziente di dire qualcosa, e
infatti nel primo attimo di silenzio si lancia nel racconto di quando,
adolescente, si trovò a intrattenere Fidel Castro in visita al campo dei
"Pioneros" proprio il giorno in cui era "caporale di giornata".
Preoccupatissimo ed eccitatissimo, rispose con inaspettata scioltezza
alle domande del Comandante sul funzionamento del campo e sulle
attività. A un certo punto, gli accompagnatori fecero presente a Castro,
con i gesti e con gli sguardi, che era necessario accelerare la visita.
Fidel chiese al ragazzo di fermarsi un attimo e si voltò verso i suoi
uomini: "Calma, signori: sto parlando con il ragazzo. Quando avremo
finito andremo".
Grazie alla disponibilità alla chiacchiera dei tre
(di facile riscontro a Cuba!), ho proseguito la mia "esplorazione":
"Cosa vi sembra sia cambiato dal giorno dell'annuncio di Obama e Raul?".
Mi rispondono di getto: "Nei fatti o a parole?". Dico: "Nei fatti e a
parole". Dice uno: "Nei fatti, nulla. Il blocco è come prima e forse
peggio. In giro si vedono più nordamericani, ma non sono ancora turisti
'a tutti gli effetti': sono quelli che rientrano nelle 12 categorie che
Obama ha 'liberalizzato', tra cui giornalisti, ricercatori, educatori,
associazioni professionali e umanitarie, oltre naturalmente ai cubani di
nascita che adesso possono rientrare più spesso". Dico: "Ah, è quella
che Obama ha definito la 'diplomazia culturale', quella che dovrebbe
trasmettere i valori occidentali alla povera e sprovveduta Cuba?". Dice:
"Sì, quella. Ma gli americani sono comunque tanti, il che fa pensare
che dentro quelle categorie ci mettano di tutto. Però il turismo puro e
semplice è ancora proibito perché è proibito dalla legge americana sul
blocco, e il blocco permane esattamente come prima. Tra l'altro, lo sai
che a quelle categorie la legge americana vieta la frequentazione di
luoghi pubblici e spiagge?". Dico: "Caspita, viva la liberta!". Dice:
"Già, viva la libertà". Dico: "E nelle chiacchiere cos'è cambiato?".
Dice l'altro: "Nelle chiacchiere sembra cambiato tutto: tutto a posto,
tutti amici. Così adesso dobbiamo fronteggiare questa nuova ondata di
disinformazione che torna a sollevare polvere, come sempre, e sai bene
che in questo gioco noi abbiamo la peggio, perché noi siamo 'la feroce
dittatura'...". Dico: "Nei tre giorni che abbiamo trascorso in un cayo
abbiamo sentito che il personale del resort si rivolgeva agli ospiti in
inglese. Perché? Dove finirà l'orgoglio isolano?". Dice: "Sì, è un
peccato, ma evidentemente così si vuole mostrare tutta la nostra
disponibilità e apertura. Dobbiamo mostrarci aperti perché altrimenti
passiamo per integralisti e antiquati, ma noi sappiamo quello che
facciamo. Non sono questi i cambiamenti che ci preoccupano. Non ti
preoccupare, sulle cose importanti teniamo la barra dritta. Le cose
importanti sono la sanità, l'istruzione e l'informazione, e lì non
permetteremo mai nessuna ingerenza di nessun tipo. Possiamo aprire
qualsiasi cosa alla partecipazione mista, ma non le cose importanti".
Dice l'altro ancora: "Non si può evitare il cambiamento, anzi: lo
vogliamo! Avremo il diritto anche noi a un maggiore benessere, no? O
pensi che per essere socialisti e conservare la verginità dobbiamo
restare con le pezze al culo? Vedrai, troveremo la nostra strada. Siete
tutti spaventati perché nessun socialismo è arrivato fin qui, e nessuno
conosce la ricetta giusta. Del resto, qualcuno conosce la ricetta giusta
del capitalismo? Noi stiamo sperimentando, e lo faremo lentamente ma
inesorabilmente, anche sbagliando, tornando indietro e ricominciando,
come abbiamo fatto spesso in passato, ma non ci fermeremo. Ricordati
cosa dice Raul: vogliamo un socialismo prospero e sostenibile!". Dico:
"Quello che dici mi consola, ma come la mettiamo con il 'potere
corruttivo' del denaro? I turisti e poi gli stranieri delle aziende
miste vi stanno portando un sacco di valuta pregiata, non pensi che, se
la domanda aumenterà, si creerà una nuova borghesia che prima o poi
pretenderà 'diritti del terzo tipo'? Voglio dire: come da noi, cioè
gente che per il fatto di veicolare ricchezza pretende 'trattamenti di
riguardo'". Dice l'altro: "L'abbiamo detto, non si può evitare il
cambiamento. In questo momento entrano soldi? Benissimo, ne abbiamo
bisogno più del pane! O pensi che dovremmo fermarci e poi ripartire solo
quando avremo trovato un modello fiscale e legale ideale per sostenere
l'equilibrio e la redistribuzione? Purtroppo non si può fare così. Le
infrastrutture sono scarsissime, in questo Paese ci sono talmente tante
cose da fare che dobbiamo farle tutte insieme: fare le cose e progettare
i modelli per gestirle. Ed è ciò che stiamo facendo. E comunque non
partiamo da zero: cinque anni fa abbiamo tracciato le linee guida di un
piano di sviluppo quinquennale e decennale con l'aiuto della popolazione
attraverso un confronto di proporzioni mai viste, con le assemblee di
quartiere, le associazioni di categoria e i sindacati. La popolazione ha
partecipato in modo impressionante. Abbiamo fissato i principi e
sappiamo tutti dove vogliamo andare, non solo i quadri". Dice il primo:
"Restiamo un'economia debole e lenta, ma non abbiamo fretta". Dice di
nuovo il terzo: "Entra tanta valuta ma non basta ancora per dare un
volto nuovo al Paese, non abbiamo sufficiente liquidità, anche a causa
del blocco, e gli stanziamenti dobbiamo farli in valuta pregiata,
dollari o euro, un anno per l'altro. Non possiamo improvvisare nulla, ma
forse è perfino meglio così". Dice ancora il primo: "Nella nostra
economia, un cubano ha bisogno dell'equivalente di 120-140 dollari al
mese per vivere bene. Non siamo molto lontani". Dico: "Il ritorno alla
moneta unica sarà un passaggio complesso, ma dovrebbe aiutare a
migliorare ed equilibrare la redistribuzione della ricchezza, giusto?".
Dice: "Sì, ci stiamo lavorando". Di nuovo il terzo: "Siamo in America
Latina, abbiamo altri standard e abbiamo sofferto mille vessazioni, non
abbiamo paura di soffrire ancora. Faremo le nostre scelte una dopo
l'altra senza correre, non possiamo sciupare il patrimonio di questi 60
anni di Rivoluzione".
Ne approfitto per parlare di una questione che
mi sta molto a cuore: "Sui nostri mezzi di informazione, anche i più
benevoli, mi capita spesso di leggere del disimpegno dei giovani, quelli
della generazione successiva alla Rivoluzione, quelli cresciuti nel
Periodo Especial nel segno della scarsità e della privazione. Dicono che
questi giovani hanno voglia di libertà, benessere e capitalismo,
portano vestiti firmati e consumano i pochi pesos a disposizione
chattando su Internet. Tutti si chiedono cosa sarà di Cuba quando questi
ragazzi raggiungeranno i posti chiave della società". Leggo nuovamente
sui loro volti quell'impossibile espressione mista di rabbia e genuino
divertimento. Intuendo la loro risposta mi affretto ad aggiungere: "I
nostri giornali sono molto preoccupati...".
Uno dei tre mi guarda e
mi dice: "Tu mi sembri una persona seria e affidabile. E' così?". Tra lo
spiazzato e il sorpreso gli rispondo: "Mah, non lo so, può darsi, non
sono io a poterlo dire...". Lui mi incalza: "Sei sempre stato così?
Voglio dire: a 20 anni eri già così serio e affidabile? Non hai mai
fatto sciocchezze, non hai mai desiderato una vita comoda e facile?".
Sorrido per dissimulare il colpo. E lui: "Sappiamo che ci sono dei
rischi, ma non possiamo e non vogliamo fermare il cambiamento, come
sempre. I nostri ragazzi desiderano una vita facile anche più dei vostri
perché hanno un passato difficile. Ma loro sono esattamente il loro
passato, e quando sarà il momento, quando saranno maturati, saranno
quello che sono. E poi, se non dovesse essere così... qual è il
problema? Secondo voi, siccome siamo a Cuba dovremmo essere tutti
inquadrati e irreggimentati? Il colmo è che se lo fossimo ci accusereste
di esserlo!". Poi l'altro: "La scala dei valori qui è diversa. E'
difficile da spiegare. Anche la nostra scala di valori ha dei problemi,
ma è difficile spiegarli a chi già non conosce e capisce questi valori".
E incalza: "Così come nelle società consumistiche l'individualismo e
l'ambizione producono distorsioni letali, anche da noi il paternalismo e
la sicurezza sociale hanno prodotto distorsioni. Molto meno letali, ma
costituiscono comunque il freno a uno sviluppo ideale. Resta il fatto
che abbiamo visioni molto diverse, e nessuno dovrebbe pretendere di
imporre all'altro una soluzione basata sulla propria visione".
Per
dimostrarmi il suo teorema, per spiegarmi quali siano i rischi del
paternalismo, mi fa l'esempio di un ragazzone del suo 'barrio', sposato e
con una figlia, che è stato lasciato dalla moglie a causa dei suoi
accessi d'ira e delle sue frequenti "leggerezze". Cacciato di casa, ha
girovagato nel barrio per mesi e si è buttato nell'alcol. Il Consiglio
del Poder Popular di quel barrio ha stanziato una somma per consentirgli
di sistemare una casetta e rifondare le basi della sua esistenza. Mi
spiega che l'attenzione della comunità al ragazzo non si è esaurita nel
momento in cui gli è stato concesso il piccolo finanziamento, ma lo ha
accompagnato per evitare ricadute e che abusasse dell'aiuto. Mi scappa
un commento: "Ah, il barrio ha stanziato un finanziamento a fondo
perduto?". Lui mi guarda strabuzzando gli occhi e mi dice: "Fondo
perduto? Che fondo perduto, scusa? Il ragazzo sta meglio e il barrio non
subisce più gli effetti del suo disagio. Stanno meglio tutti, è stato
un investimento". Cerco di abbozzare un timido sorriso, che in quel
momento mi pare essere il modo meno stupido per dire: "Scusa, ho
capito".
L'altro riprende il discorso da cui ci
eravamo un po' allontanati: "In tutte le società c'è sempre chi se ne
frega di qualsiasi cosa. Non puoi pretendere da tutti lo stesso impegno e
la stessa applicazione. Ma dimmi, sono i giovani 'disimpegnati' che
governano o governeranno il Paese? In quale Paese le scelte politiche
sono guidate e condizionate da questo tipo di persone? Se come in tutti i
Paesi c'è chi se ne frega di tutto, a Cuba c'è di buono che chi occupa i
posti chiave è preparato e consapevole".
La chiacchiera trova una
breve pausa. Sorseggiamo quello che resta della birra, ci guardiamo
intorno, respiriamo l'aria fresca della sera habanera. Il vento che oggi
ha schiantato un miliardo di onde sui parapetti del Malecon finalmente
si è placato. Dico: "Ho visto che nei giorni scorsi all'Avana c'è stato
il Vertice dell'Associazione degli Stati del Caribe". Dicono: "Sì,
queste sono cose molto importanti per i Paesi dell'America Latina".
Dico: "In QUESTO mondo Cuba è al centro, vero?". Dicono: "Sì, adesso
sì". Dico: "Beh, da qualche tempo, no?". Dicono: "Sì, è vero: da quasi
sessant'anni". Dico: "Mi ha colpito molto la tranquillità nella quale si
è svolto: da noi per un evento del genere ci sarebbe stato un presidio
da guerra civile, corpi speciali, transenne e zone rosse, arancioni,
verdi e chissà quante altre sfumature, mentre qui c'erano due poliziotti
su ogni angolo dell'albergo dove si teneva il Vertice che controllavano
solo che passanti e macchine non si fermassero lungo i quattro lati
dell'isolato. Ma ho comunque visto una macchina che si è fermata per far
scendere due vecchietti, e un poliziotto ha fischiato, ha fatto segno
all'automobilista di andare, e questo faceva segno al poliziotto di
aspettare. Ha fatto scendere i due vecchietti e poi, con tutta calma, è
risalito in macchina e ha ripreso la sua strada". Dicono: "Sì, siamo
tranquilli qui. Anche qui ci sono quartieri un po' più difficili, ma non
senti mai una sirena. Quando senti una sirena è perché è successo
qualcosa di grave".
La birra è finita e anche la serata, ma c'è
ancora qualcosa sospesa nell'aria che i tre amici mi devono dire. Se ne
fa interprete quello che era rimasto un po' più in silenzio. Mi guarda
con un sorriso sornione. Sembra esitare, poi alla fine mi chiede: "Fidel
è morto. Lo sai chi sarà il prossimo lìder?". Dico: "Se non sbaglio si
parla dell'attuale Ministro degli Esteri, è così?". Dice: "No". Dico:
"Beh, allora non lo so". Mi guarda e sorride, poi: "Davvero non lo
sai?". Dico: "No, non lo so, e anche se mi è capitato di leggerlo sui
vostri siti, sicuramente non me lo ricordo". Tace. Di nuovo mi guarda e
sorride: "Non riesci a immaginarlo?". Dico: "No, te l'ho detto, pensavo
fosse il Ministro degli Esteri...". Dice: "Te lo dico io chi sarà il
lìder dopo Fidel". E poi tace ancora, e di nuovo sorride. Intuisco che
vuole tenermi sulle spine, che vuole creare le premesse per l'effetto
sorpresa. Alla fine me lo dice: "Dopo Fidel il nuovo lìder sarà Fidel".
Solo a quel punto riesco a spiegare la mia intuizione, a capire perché
diceva "dopo Fidel" e non "dopo Raul". Non era il lìder politico quello a
cui alludeva, dovevo capirlo. Per la seconda volta cerco di abbozzare
quel timido sorriso, però sento che questa volta non basta. Così allungo
una mano e gli sfioro una spalla e, sperando che non mi senta,
sussurro: "Non avevo capito la domanda...".
Purtroppo non ho strumenti per
azzardare analisi, ma non credo siano le analisi le cose più
interessanti da fare a Cuba. Ciò che quell'isola può regalarci è
un'altra cosa: è il segno di una lotta contro la banalizzazione del
confronto sociale, contro la riduzione della politica a meschina
contrapposizione di interessi di parte. Non è difficile né insolito
raccogliere testimonianze così. A Cuba è così. Non è necessario essere
giornalisti o ricercatori: intuizioni di un mondo "altro" ti piovono
addosso senza cercarle. Ho parlato con gente comune, con dirigenti di
aziende (ovviamente statali!), con giornalisti, studiosi e
rappresentanti del Poder Popular della capitale. Ho respirato l'aria ed
era fresca, pulita e leggera. Aria di cultura e di curiosità; di musica,
arte e confronto aperto; di solidarietà, empatia e incontro. La gente
si aiuta e ti aiuta, sembra incapace di odiare. Perfino sulla strada:
gli automobilisti ti strombazzano con i loro clacson assordanti e poi ti
salutano. Ho visto ospedali, scuole, asili e ospizi in tutti i borghi.
Il lavoro minorile non esiste, la denutrizione infantile è stata
cancellata, unico paese dell'intero continente americano. Non c'è
bisogno di discorsi e analisi, né di qualcuno che voglia convincerti. Le
cose le vedi. Ho visitato città, parchi naturali e ascoltato musica che
sono Patrimoni dell'Umanità, e ho intuito che quella immensa ricchezza
di natura, cultura e Storia sono stati affidati nelle migliori mani
possibili.
Se vogliamo dire che lo stile di vita è quello un po'
indolente, trasandato e marpione, un po' sagace e furbacchione tipico
dei sud del mondo, diciamolo pure, ma per favore, non facciamone una
cosa politica, ché non fa onore alla nostra intelligenza.
Il
paradiso non è di questa terra e Cuba è fatta di uomini, come potrebbe
sfuggire a questa legge? Ma è uno straordinario laboratorio che il
mondo, invece di angariare, dovrebbe preservare e coccolare. Perché il
giorno in cui Cuba dovesse "perdersi", il mondo tutto perderebbe forse
l'ultima occasione per specchiarvi le sue ipocrisie.

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