L’8 dicembre del 1982, poco più di 38 anni fa, Gabriel García Márquez veniva insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Durante la cerimonia, volle parlare della sua terra. E io voglio ricordare ciò che disse, perché mi sembra che qui in giro non siano in tanti a parlarne...
“Gabo” iniziò dai racconti che del suo Continente fecero i primi esploratori, di quanto lo trovarono esotico, bizzarro e fantastico. Poi elencò le sciagure di cui fu oggetto e vittima, secoli di sfruttamento, razzie, saccheggi e oltraggi, dittature e genocidi senza tregua. Poi parlò di Pablo Neruda che nel 1971 illuminò la giuria del Premio Nobel e le buone coscienze del mondo, tra le quali allora fecero irruzione le spettrali notizie sull’America Latina, un’immensa patria di uomini visionari e di donne memorabili la cui infinita ostinazione si confonde con la leggenda.
E poi continuò così:
“Da allora, un presidente trincerato nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito; due disastri aerei sospetti e mai chiariti hanno tolto la vita a un altro presidente dal cuore generoso e a un militare democratico che aveva ristabilito la dignità del suo popolo; ci sono stati cinque guerre e diciassette colpi di Stato, un dittatore luciferino che in nome di Dio ha compiuto il primo etnocidio dei nostri tempi in America Latina. Venti milioni di bambini latinoamericani sono morti prima di compiere un anno, più di quanti ne siano nati in Europa nello stesso periodo, dal 1971 ad oggi [1982]. Centoventimila desaparecidos, che è come se oggi non si sapesse dove siano finiti tutti gli abitanti della città di Uppsala. Numerose donne, arrestate quando erano incinte, hanno partorito nelle prigioni argentine, ma si ignora ancora l’identità e il luogo di residenza dei loro figli, che le autorità militari hanno dato in adozione clandestina o hanno internato negli orfanotrofi. Per essersi opposti a questo stato di cose, sono morti circa duecentomila uomini e donne in tutto il continente, mentre più di centomila sono stati ammazzati in tre piccoli e volenterosi paesi dell’America centrale: Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Se tutto questo fosse avvenuto negli Stati Uniti, la cifra proporzionale sarebbe di un milione e seicentomila morti in quattro anni. Dal Cile, paese tradizionalmente ospitale, sono fuggite un milione di persone: il dieci per cento della sua popolazione. L’Uruguay, una minuscola nazione di due milioni e mezzo di abitanti che veniva considerato il paese più civilizzato del continente, ha perso nell’esilio un cittadino su cinque. La guerra civile nel Salvador ha prodotto, dal 1979, quasi un rifugiato ogni venti minuti. Il paese che si sarebbe potuto creare con tutti gli esuli e gli emigranti forzati dell’America Latina avrebbe una popolazione più numerosa di quella della Norvegia.
Voglio credere che sia stata questa realtà fuori dal comune, e non soltanto la sua espressione letteraria, a meritare quest’anno l’attenzione dell’Accademia svedese delle Lettere. Una realtà che non è quella rappresentata sulla carta, ma che vive con noi e determina ogni istante delle nostre innumerevoli morti quotidiane, che sostiene una spinta insaziabile alla creazione, ricca di sfortuna e di bellezza, di cui questo colombiano errante e nostalgico non è altro che un numero segnalato dalla sorte. Poeti e mendicanti, musicisti e profeti, guerrieri e fuorilegge, tutte noi creature di una realtà smisurata abbiamo chiesto pochissimo all’immaginazione perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. Questa, amici, è la realtà della nostra solitudine.
E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo, estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano ritrovati senza un metodo valido per interpretarci. Insistono nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano se stessi senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro. L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più soli. Forse la venerabile Europa sarebbe più comprensiva se tentasse di vederci nel suo stesso passato. Se ricordasse che a Londra occorsero trecento anni per costruire le prime mura e altri trecento per avere un vescovo; che Roma si dibatté nelle tenebre dell’incertezza per venti secoli prima che un re etrusco la collocasse nella storia; e che ancora nel XVI secolo i pacifici svizzeri di oggi, che ci allietano con i loro delicati formaggi e i loro infallibili orologi, insanguinavano l’Europa come soldati di ventura. Ancora all’apogeo del Rinascimento, dodicimila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma passando a fil di spada ottomila suoi abitanti.
Non pretendo di incarnare le illusioni di Tonio Kröger, i cui sogni di unità fra un Nord casto e un Sud appassionato, Thomas Mann esaltava cinquantatré anni fa in questa sala, ma credo che gli europei dallo spirito illuminato – quelli che lottano anche qui per una grande patria più umana e più giusta – potrebbero aiutarci meglio se riconsiderassero a fondo il loro modo di vederci. La solidarietà verso i nostri sogni non ci farà sentire meno soli se non si trasforma in atti di sostegno verso i popoli che, nella divisione del mondo, vogliono avere il diritto alla loro vita”.

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