Parlano i centenari

Il libro di una ricercatrice di origine molisana traccia un’analisi sociologica della regione delle mie origini e della sua gente, ricostruendo un quadro esistenziale e culturale sulla base dei racconti e dei ricordi di un campione di anziani che hanno vissuto da protagonisti tutto il ‘900.

Alla ricerca di documenti, materiale e spunti per esplorare la storia e lo spazio della regione delle mie origini che per tanti e ovvi motivi esercita su di me una grande fascinazione, non potevo non fare tappa, durante l’ultima vacanza che mia moglie e io abbiamo trascorso a Monacilioni, al mercato di corso Bucci a Campobasso.
Ricordavo di aver curiosato in passato tra le pubblicazioni in mostra su una bancarella o nella vetrina di un’edicola-libreria lì vicino, ma il giorno in cui ho deciso di partire “in missione”, però, la bancarella non c’era, così mi sono subito diretto all’edicola. Non ricordavo di aver mai visto l’adesivo applicato sulla porta di ingresso ad altezza occhi, forse perché apposto solo in questi ultimi anni. Fatto sta che mi ha messo di buon umore e ben predisposto all’esplorazione degli scaffali: racchiusa all’interno di un triangolo rosso come quello dei segnali stradali di pericolo, la scritta sull’adesivo diceva: “La lettura provoca cultura”. Come si fa a non essere d’accordo? Oggi leggere è diventato un’azione davvero molto “pericolosa”...
La fortuna ha voluto premiarmi mettendomi sotto gli occhi due libri bellissimi: “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” (Palladino Editore, 2006), ristampa anastatica dell’opera completa di Giambattista Masciotta del 1914, e “Parlano i centenari, vita e valori della gente molisana del ‘900” (Cosmo Iannone Editore, 2005), un saggio di Angela Amoroso.
Per parlare del primo, data la sua mole (circa 1900 pagine in quattro volumi) mi sarà necessario un po’ di tempo, ma nel frattempo posso anticipare che, nel secondo volume, c’è un capitoletto di 6 pagine interamente dedicato a Monacilioni. Del secondo libro, invece, vorrei dire qualcosa subito, perché è stato una bellissima e piacevolissima scoperta…

L'autrice
Angela Amoroso è molisana di Petrella Tifernina e vive a Milano ormai da molti anni. Laureata in Economia e Commercio, si è dedicata fin dall’inizio della carriera alle ricerche di mercato, fino a quando ha fondato un istituto che ha poi diretto per trent’anni. Insieme a questo impegno professionale specifico, spinta dall’attaccamento alle sue radici e dall’amore per la sua gente e la sua terra, Angela ha anche esplorato ambiti più squisitamente culturali, e lo ha fatto con un taglio originale davvero interessante. Credo sia possibile affermare che, seppur basata sulla “aridità” dei numeri, l’analisi antropologica e sociologica che Angela ha saputo condurre è stata capace di cogliere con grande sensibilità i tratti caratteristici e caratteriali della nostra regione e della gente che la abita.
Attraverso la ricostruzione del percorso di vita di un campione di persone di diversi paesi della provincia di Campobasso, scelte tra quelle più vicine al centesimo compleanno o che addirittura l’hanno superato e che hanno vissuto da protagoniste tutto o quasi il ‘900 – il secolo dei mutamenti sociali, economici e culturali accelerati come mai prima nella Storia – l’autrice scopre e ci rivela come, quanto e con quali conseguenze i tempi abbiano influenzato e inciso sul carattere e sulle tradizioni della popolazione molisana. In qualche caso – aggiungo io dopo aver letto il libro – si potrebbe forse anche constatare, al contrario, come la cultura e le tradizioni della gente molisana, che emerge dal ritratto come particolarmente forte e coesa, siano state capaci di incidere sui tempi.

L'indagine sociologica
La ricerca, basata sulle testimonianze di nostri corregionali nati a cavallo del 1900, ma che abbracciano con i loro racconti il tempo della generazione precedente risalendo quindi fino all’ultimo quarto dell’800, restituisce com’era prevedibile l’immagine di una popolazione legata ai valori tradizionali: la terra, il lavoro, la famiglia, la comunità paesana e una spiritualità robustamente fondata sui principi della religione cattolica.
La lingua parlata è ovviamente il dialetto locale; la metà del campione è analfabeta, e la maggior parte di questa metà sono donne, ma bassa è in generale la scolarità, anche se non manca l’eccezione di un medico e tutti gli intervistati auspicano per i figli e i nipoti un più alto livello di istruzione. Sul piano del lavoro e del posizionamento sociale, la maggior parte del campione proviene da famiglie di braccianti, pastori, mezzadri o coltivatori diretti; alcuni sono artigiani, pochi i commercianti. Solo sei donne su 20 sono casalinghe, un dato che ci dice come il campione sia ancorato alla terra, ai suoi ritmi e alle sue fatiche.
Ma al di là dell’aspetto meramente statistico, ciò che più ha mosso la mia curiosità nella lettura del lavoro di Angela è stata l’analisi degli aspetti valoriali che, a mano a mano, sono emersi dalla sua ricerca e dal suo racconto. Io credo che questa curiosità sia l’effetto della ricerca interiore che ognuno di noi fa delle proprie origini, con più o meno trasporto ed emozione, e risponde al bisogno più o meno consapevole di rintracciare il passaggio dei nostri bisnonni, nonni e genitori che hanno preceduto il nostro. Riscoprire quel passaggio, identificarlo e riconoscerlo, ci aiuta a ritrovare il nostro animo più autentico, a dare un nome ai nostri impulsi più profondi, a “riconnetterci”.

Il sistema dei valori
Neanche a dirlo, l’aspetto valoriale comune a tutti gli intervistati è la terra, che emerge con forza e in modo indipendente dal mestiere svolto nella vita. Nessuno è disposto a tagliare il filo che lo lega alla terra, e tutti esprimono il desiderio di conservare anche solo un piccolo appezzamento per coltivarlo. Il legame con la terra è rassicurante: come molti hanno sperimentato in tempo di guerra, anche in caso di drammatica necessità è in grado di allontanare lo spettro della fame e garantire l’essenziale.
Ma per ciò che emerge dai racconti dei nostri “vecchietti”, la terra non ha solo un valore materiale, e non ha a che fare solo con la sopravvivenza: va molto oltre e costituisce una sorta di afflato, un legame che ricorda in qualche modo quello dei sudamericani con la “Pachamama”, la Madre Terra.
Un altro valore che la ricerca mette in luce è la comunità, intesa come “storia collettiva”, sostenuta da una mescolanza tutto sommato positiva di sentimenti religiosi e senso civico. A fare la storia di ogni singola comunità paesana concorrono sempre sia la tradizione religiosa che l’impegno civile, il più delle volte senza stridori o conflitti manifesti. Ovviamente non mancano le eccezioni e soprattutto non sono mancate in passato, quando forse furono più legate a fenomeni di respiro nazionale – o addirittura extra-nazionale – che locale.
Per quanto riguarda il ruolo e l’importanza del lavoro, tutti gli intervistati si dichiarano certi che non si tratti solo di un mezzo attraverso il quale soddisfare necessità materiali, ed è invece avvertito più come strumento di rappresentazione di sé stessi e di sé stessi nella comunità. Sicuramente, quello molisano è un popolo di grandi lavoratori che non si arrendono alle difficoltà, tenaci spesso fino alla testardaggine. Per loro, il lavoro è uno stile di vita, inculcato dai genitori nei figli e considerato come motore della società.

L'emigrazione
La presenza nel libro di un lungo capitolo dedicato all’emigrazione non può sorprendere. Si stima che oggi i molisani nel mondo siano oltre i due terzi della popolazione residente nella regione. Nella maggior parte dei casi, la loro è stata un’esperienza di successo in virtù di una dimostrata capacità di adattamento che però non ha mai definitivamente cancellato la traccia delle origini. Certo non sono mancate rotture e lacerazioni che hanno messo in difficoltà le famiglie e le comunità di provenienza, ma il sistema dei valori non ne è uscito sconfitto e, anzi, qualche volta sembra addirittura essersi arricchito e rigenerato, in chi è partito e in chi è rimasto. Un fatto probabilmente dovuto alla fierezza e al rispetto per sé stessi e per gli altri, tratti tipici della nostra gente. Tra i molisani trasferiti all’estero raramente si sono evidenziati sentimenti di inferiorità e ostilità, o situazioni di ghettizzazione e quindi di assoggettamento e perdita dell’identità culturale, o peggio ancora di devianza criminale. Presso chi è rimasto, invece, resta naturalmente il dolore della separazione e la malinconia per il timore di non riuscire a riunire la famiglia.
In tutti i territori del Molise caratterizzati da forte emigrazione si verifica il fenomeno degli episodici ripopolamenti in occasione delle ferie da parte dei nativi che abitano lontano, richiamati dalla nostalgia per i luoghi e per le tradizioni forse più ancora che per la famiglia. I ricordi delle atmosfere, dei giochi, delle ragazzate, dei profumi e dei sapori, rimangono vivi e agognati come l’aria. Quando rientrano dopo anni di distacco, gli “expat” sembrano bambini persi in un negozio di giocattoli, si aggirano per le strade con il naso all’insù a cercare nei segni delle case e nell’aria i ricordi più intimi. Se capitano in occasione delle feste patronali, molti di loro non riescono a trattenere le lacrime. Tra i molisani, forse più che tra altre popolazioni, si riscontra un forte attaccamento agli scenari delle origini, e “ogni scusa è buona” per tornare, se è possibile.

La solidarietà
Secondo il racconto degli intervistati, il sistema valoriale caratteristico della nostra gente, basato su principi essenziali e semplici e per questo chiari e solidi, è alla base della sua storica “resilienza” – un termine oggi molto abusato – che ha permesso di superare anche i momenti più bui della guerra. L’accoglienza, la solidarietà e la sostanziale coesione delle comunità hanno costituito in quelle occasioni un’importante forma di difesa, in qualche caso estesa anche agli sfollati da altre regioni d’Italia che, terminata l’emergenza bellica, hanno poi scelto di restare.
A proposito della guerra, mi piace riportare l’esperienza di un intervistato che, avendo assistito al passaggio dei due eserciti stranieri, ai saccheggi, alle prevaricazioni sui civili e a ogni tipo di brutalità, libera il suo ricordo e attribuisce ai tedeschi, insieme alla “crudeltà militare”, anche una certa “serietà di fondo”, mentre invece accusa gli alleati di “amoralità”, una categoria particolarmente aborrita dalla sua cultura e dal suo vissuto.

La tradizione e la religione
L’eredità etica e della fede tramandata dai genitori e dai nonni ha lasciato una forte impronta sugli intervistati, ma nelle comunità molisane permane ancora oggi senza per questo alimentare la percezione di anacronismo spesso dettata da certo progressismo. Anzi, nel loro vissuto, l’impressione è che, in un mondo sempre più laicizzato e secolarizzato, qualcosa sia “andato storto”, e il desiderio è semmai quello di una restaurazione dei valori. Nessuno, però, ha anche solo evocato o fatto allusioni a superstizioni, fascinazioni o riti magici, presenti invece in altre culture arcaiche. La religione fornisce dunque la cornice simbolica e gli elementi che rafforzano il sistema dei valori, alla stregua di quanto affermò il grande antropologo Durkheim: “Il sacro è la grammatica profonda della società e la proiezione ideale che la società fa di sé stessa”.
Ad eccezione di un caso che comunque sfugge a una rigida categorizzazione, tra gli intervistati non si rilevano testimonianze significative di ateismo o anticlericalismo.
La cultura cattolica non è vista come retaggio tradizionale e “passatista”; al contrario, quasi tutti gli intervistati le attribuiscono una validità permanente e sono convinti che i valori religiosi costituiscano una guida anche per le generazioni future, e che l’istruzione e la conoscenza non siano in antitesi con essi, ma anzi ne aiutino la migliore comprensione.

La famiglia
Il fatto che, quasi all’unanimità, gli intervistati si dichiarino contro il divorzio, è forse la conseguenza di quanto detto: il matrimonio è un impegno davanti a Dio, ma anche da un punto di vista più laico è considerato un legame indissolubile.
A proposito della famiglia, che secondo quanto emerge dalle riflessioni dei nostri “centenari” resta l’istituzione centrale della società, prevalente su ogni interesse egoistico, l’autrice del libro ci regala una riflessione molto bella mentre smonta la tesi del “familismo a-morale” formulata dal sociologo statunitense Edward Banfield nel suo saggio “Le basi morali di una società arretrata” (Editore Il Mulino, 1976).
Banfield trasse spunto dai suoi studi condotti sul campo nel corso di un viaggio nel Mezzogiorno d'Italia, più precisamente in Basilicata, e ipotizzò che certe comunità sarebbero arretrate perché la loro cultura presenta una concezione estremizzata dei legami familiari che va a scapito dell'interesse collettivo. Secondo lo studioso, gli individui agirebbero secondo una regola non scritta che li porterebbe a perseguire unicamente obiettivi di breve termine utili per la propria famiglia e non per la comunità, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Dunque: “familismo” perché l'individuo mira solo all’interesse della propria famiglia nucleare e non a quello della collettività, che richiederebbe cooperazione tra non consanguinei; “a-morale” perché le categorie di bene e male si applicano alla sola cerchia familiare, e non agli altri individui della comunità. Un’a-moralità, quindi, che non avrebbe comunque nulla a che vedere con i comportamenti all’interno della famiglia, ma piuttosto con l'assenza di ethos comunitario, ovvero di relazioni sociali etiche tra le famiglie e gli individui all'esterno di esse.
Ebbene, Angela Amoroso, invece, riscontra nel tessuto sociale evocato dai nostri centenari evidenti tracce di coraggio, speranza e pazienza nell’ottica, sì, di vivere il presente, ma soprattutto per costruire il futuro giorno per giorno, come a onorare in ogni occasione una sorta di giuramento di fedeltà alla propria identità, anche nelle situazioni difficili.
In contrasto quindi con l’idea di Banfield di una comunità arretrata e ferma, Angela ricava dalla sua analisi l’immagine di “un popolo impegnato non tanto a salire, quanto a camminare”. Il denaro in sé e il successo economico non sembrano essere stati i principali valori per i nostri centenari: c’è rispetto per il denaro come frutto del lavoro e c’è un diffuso senso del risparmio come promessa di miglioramento della qualità della vita, ma la ricerca non registra tracce di discordia per ragioni di interesse e nessuno mitizza la ricchezza materiale o è preda di avidità di possesso come quella che si ritrova, ad esempio, nell’ossessione per “la roba” di Giovanni Verga. Sul piano sociale, poi, le relazioni etiche esistono eccome, e sono testimoniate dai numerosi racconti di casi di solidarietà, per buona pace di Banfield.

La vecchiaia
Molto interessante è anche il rapporto con l’avanzare dell’età: per la totalità del campione degli intervistati gli anni sono trascorsi in modo assolutamente naturale. Dai racconti non traspare nessuno di quei segnali traumatici tipo l’emarginazione, l’abbandono o lo svuotamento del proprio ruolo, purtroppo tipici presso gli anziani di altre società, in particolare quelle più urbanizzate. La comunità paesana sembra contribuire a mantenere alta l’autostima e, quindi, ad “amarsi” per ciò che si è: vecchi, e a guardare con indulgenza ai segni visibili del tempo che trascorre, un atteggiamento davvero in antitesi rispetto all’ideologia che ci considera “adeguati” solo finché consumiamo.
Alla domanda se la vita possa avere ancora il suo fascino anche dopo gli ottant’anni, i nostri centenari rispondono in modo pressoché unanime. Era facile aspettarsi una risposta positiva, ma ciò che risulta invece inaspettato è il tono entusiastico di chi arriva addirittura ad accostare la vecchiaia a una nuova fase, ricca di scoperte gioiose come quella giovanile. Emerge l’importanza di essere considerati e rispettati dai familiari e dalla cerchia di conoscenti, sentimenti che i nostri anziani restituiscono in forma di saggi e affettuosi consigli con la forza dell’esperienza e il desiderio e la capacità di donarsi agli altri con grande distacco e libertà.
La “ricetta di lunga vita” – paradossale ossessione delle nostre società che causa effetti controproducenti sulla qualità delle nostre esistenze – è spiegata dai nostri vecchi in due passaggi di disarmante semplicità: vivere in pace con tutti e accontentarsi di ciò che si ha.
Il confronto tra le diverse epoche della vita è forse un po’ scontato, ma inevitabile, così come la domanda se sia stata meglio quella di ieri o sia meglio quella di oggi. Le donne del campione tendono a preferire l’epoca attuale per le migliorate condizioni delle loro vite, soprattutto per ciò che riguarda gli aspetti pratici, ma se la riflessione si sposta sugli aspetti valoriali, anch’esse ritornano custodi delle tradizioni. Il confronto si chiude in modo solo apparentemente paritario: il “buono” dell’oggi è ben accolto per il “comfort”, ma è respinto sul piano dei valori perché visto come una minaccia per la continuità dei principi fondanti della comunità.

I figli
In tutti i racconti ritorna spesso il tema dei figli. Restando nell’ambito delle considerazioni su quale epoca sia la migliore, la riduzione delle nascite suscita riflessioni per certi versi sorprendenti proprio da parte delle donne: pur consapevoli di toccare un tema “sacro”, le loro risposte suonano trasgressive rispetto ai parametri culturali consolidati. In ogni caso, la motivazione della preferenza verso un minor numero di figli è sempre contingente alle mutate esigenze imposte dalla società, e lascia comunque trasparire una forte solidarietà con la condizione attuale delle madri.
In tutta l’indagine che ha condotto, l’autrice non è mai “inciampata” in un nostalgico ripiego nel passato o nell’oleografia del “buon tempo che fu”. Anzi, l’ “andare avanti” e il “guardare oltre” sono emerse prepotentemente come caratteristiche di questa generazione e di questo popolo, che ha sempre accolto con entusiasmo le innovazioni e avvertito l’importanza della conoscenza e del sapere per capirle e dominarle. Ed è proprio per questo che colpisce, al netto di tutto, che il confronto si chiuda con un atteggiamento di forte preoccupazione, da parte di tutto il campione, proprio nei confronti del clima sociale e culturale attuale: l’illusione consumistica e la noia e l’insoddisfazione da essa trascinate, sono considerate le maggiori cause di questa preoccupazione.
La testimonianza di un’intervistata riassume molto bene tutta la questione e si chiude con una considerazione molto bella e di grande effetto. Dice: “Non vedo bene il futuro delle prossime generazioni perché i ragazzi (…) non sanno quello che vogliono, e i genitori li elogiano, gli danno corda e li giustificano. Non è così che si preparano i bambini e i ragazzi alle difficoltà della vita. I figli bisogna baciarli solo quando dormono, diceva mia nonna”.

L'illegalità
Il Molise è tra le regioni italiane con i più bassi indici di delinquenza e tra le migliori posizionate come percentuale di diplomati e laureati. Il frequente riferimento dei “nostri anziani” all’importanza dell’istruzione sembra essersi declinato molto bene nei fatti. In contraltare, era prevedibile la loro sensibilità rispetto al problema della delinquenza, naturalmente sentito presso tutta la popolazione di una certa età. Sappiamo quanto sia facile, in generale, che gli anziani abbiano, rispetto a questo argomento, un atteggiamento di arroccamento difensivo, molto comprensibile. Meno scontata era invece la risposta del campione, che non ha mai invocato misure repressive straordinarie o pene più severe. Quasi tutti hanno collegato la delinquenza al sovvertimento delle regole praticata dall’intera società attuale, e sottotraccia sentono che il “rimedio” deve partire da lontano, cioè dalla riscoperta dei valori, se è il caso anche attraverso la misericordia. A differenza di tanti anziani, e in particolare di quelli urbanizzati, i nostri centenari sono meno soli e quindi meno esposti, più protetti dallo scudo ideale della comunità: senza paure dirette e senza “spettri” che si auto-alimentano, è più facile avere una visione distaccata, più critica e obiettiva.

Il mito del tempo andato
Né rimpianti, né sogni nel cassetto: questo traspare dai racconti degli intervistati in merito al tempo andato. Può darsi che le loro risposte siano state mosse da una pudica reticenza o dal desiderio di apparire forti, ma l’autrice della ricerca ci assicura che, nei fatti, non ha mai colto tracce di oggettive frustrazioni o rivendicazioni. Esistono invece ancora aspettative per il futuro, ovviamente proiettate sulle discendenze. Viene spontaneo ricondurre le motivazioni di una visione della vita così positiva all’impostazione “doveristica” del sistema culturale e dei valori: aver fatto il proprio dovere colma l’orizzonte aspirazionale di queste persone, ne appaga i bisogni più profondi e ne placa ogni inquietudine.

Fortuna e felicità
Per i “nostri” sono parole senza peso: nonostante il bilancio tutto sommato positivo della loro esistenza, non si ritengono fortunati, e nemmeno si ritengono felici perché non si sono mai consumati nella sua spasmodica rincorsa. La felicità suona per loro come un concetto astratto, una categoria emotiva come tante, del valore di un attimo, e dunque poco utile per la costruzione di una solida esistenza.
Il senso, il gusto e il piacere delle loro vite si sublimano nell’etica e nel raggiungimento di traguardi soprattutto per la famiglia: chi la porta in salvo attraverso i mari della vita è appagato. Sotto questo punto di vista, il bilancio è positivo per tutti, perché tutti hanno trasmesso ai discendenti la tradizione e aiutato i figli ad approdare nel “nuovo universo” con dignità e sicurezza. L’appagamento nasce dal risultato personale, ma anche dalla stima che la comunità riconosce loro. Il loro sentimento è che la vita sia valsa per questo: per il dovere compiuto.
C’è un che di sommessamente epico e di silenziosamente eroico in queste esistenze “arcaiche”. Le testimonianze ci dicono molto del carattere “straordinariamente normale” di questa terra e di questa gente.
Quasi per tutti, la speranza di fondo è quella della “continuità”, del non cambiamento, del desiderio che la vita continui come fosse “un vino che ormai non ha più alcun segreto per il palato, ma che sprigiona ancora gusto, che si vuole ancora sorseggiare goccia a goccia rubando ogni istante al tempo che scorre inesorabile, e accogliendo ogni nuovo giorno come un regalo inaspettato”.
La vita è rimessa nelle mani di Dio senza pronostici, ma non è rassegnazione, piuttosto è una profonda accettazione e comprensione del grande ciclo della vita da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.
Così chiude il suo racconto una delle nostre “vecchine”: «Quando passera l’Angelo, dirò ‘amen’ e lo seguirò».

Il futuro è... la tradizione?
Mi viene spontaneo aggiungere a questo lungo “riassunto” dell’opera di Angela Amoroso una mia chiosa personale, stimolata da uno dei tanti scritti che mi è capitato di leggere proprio in questi giorni in ricordo e cordoglio per la morte di Gianni Vattimo.
Mi riferisco in particolare a quanto scrisse Vittorio Messori nel suo libro “Pensare la Storia” del 1992, dove cita un colloquio che ebbe con Vattimo che, a un certo punto, espresse un pensiero che non si aspettava. Rivolto a Messori, Vattimo disse ironicamente: «Voi cattolici avete resistito impavidi per quasi due secoli all'assedio della modernità. Avete ceduto proprio poco prima che il mondo vi desse ragione. Se tenevate duro ancora per un po', si sarebbe scoperto che gli ‘aggiornati’, i veri profeti del futuro ‘post-moderno’ eravate proprio voi, i conservatori. Peccato. Un consiglio da laico: se proprio volete cambiare ancora, restaurate, non riformate. È tornando indietro, verso una Tradizione che tutti vi invidiavano e che avete gettato via, che sarete più in sintonia con il mondo di oggi, e che uscirete dall'insignificanza in cui siete finiti ‘aggiornandovi’ in ritardo. Con quali risultati, poi? Chi avete convertito da quando avete cercato di rincorrerci sulla strada sbagliata?».
Mi sembra che la risposta che Vattimo diede a Messori “in tempi non sospetti” sia molto in sintonia con l’esperienza che traspare dai racconti dei “nostri centenari”.

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