Le migrazioni ci sono sempre state (quando c’è stato bisogno di qualcuno da sfruttare)

Ma quale sorpresa! Il percorso di questa signora è di una coerenza e linearità uniche! Figlia di un alto ufficiale della NATO, negli anni scorsi è stata interprete di una delle tante farse che abbindolano la sinistra più credulona, uno dei tanti tranelli in cui si lascia volentieri risucchiare, a volte per leggerezza e altre per complicità. Una trappola ideologica che nessuno ha il coraggio o vuole rivelare...

A tutte le Rackete del mondo e ai loro mandanti gli frega assai di salvare la povera gente dal profondo degli abissi: quell'esercito di disperati che solca il Mediterraneo affrontando il rischio della traversata e l'incognita di un futuro che, a conti fatti, tanto promettente non è, soprattutto se si considera che, quando scappano dalle guerre e riescono ad approdare su questa sponda, finiscono nelle braccia di un mondo che quelle guerre le ha volute, causate e scatenate.
Il problema è che bisognerebbe avere il coraggio di dirla tutta, una volta per tutte: le emigrazioni "naturali" di massa sono poche. Queste a cui assistiamo da qualche secolo a questa parte hanno molto poco di spontaneo.
Già la sento l’obiezione: “Le migrazioni ci sono sempre state”. Certo, ci sono sempre state quando c’era bisogno di qualcuno da sfruttare. Già la sento l’obiezione: “Non guardare al problema, guarda all’opportunità: così l’umanità progredisce”. Certo, ma quale umanità? Già la sento l’obiezione: “Il richiamo di una vita migliore è inarrestabile”. Certo, ma migliore per chi? E perché la vita migliore sta sempre su una sponda e mai sull’altra? Già la sento l’obiezione: “Ma tu vorresti che affogassero tutti?”. Mai detto e nemmeno pensato. Ma in generale, chi mai vorrebbe staccarsi dalla propria terra se avesse almeno un’infinitesima speranza in un futuro? Non dico un futuro migliore, dico un futuro.
Il problema è che questo dell’emigrazione è un tabù, uno dei tanti dei nostri giorni: non si può nemmeno sperare di riuscire a costruire un ragionamento perché dopo due parole sei “di qua” o di là, sei “illuminato” oppure sei Salvini.
L’accoglienza è doverosa, ma non è l’unica soluzione, non è l’unica via di uscita delle crisi migratorie, l’unico modo per restare umani. Chi è in pericolo va soccorso e protetto, ma l’accoglienza è un’altra cosa, non è quella che nei fatti riserviamo ai migranti, a partire dalle procedure per arrivare alla distopia tra le nostre e le loro aspettative. E c’è perfino dell’altro: l’imperativo categorico non dovrebbe essere l’integrazione, ma il rispetto delle differenze. Sono pronte le nostre società per questo? Come si può credere di seminare amore e riconoscenza svuotando e depredando terre e continenti? Nel nome del progresso dell’umanità? Nel nome di una vita migliore? Siamo sicuri di riuscire a immedesimarci davvero nella prospettiva dei popoli sventrati dalle emigrazioni? L’emigrazione non è ineluttabile, anche se ci piace crederlo.
Senza contare che, anche quando un’emigrazione si può considerare “di successo” e l’integrazione si può definire “perfettamente riuscita”, l’emigrante non dimentica la propria terra, e continua a soffrire per le sue ferite.
Il primo diritto non è emigrare, ma restare. Nessuno sano di mente può mettere il diritto di essere accolto in una terra lontana e sconosciuta prima del diritto a un futuro nella propria terra. Come abitanti del cosiddetto Primo Mondo, questo dovrebbe essere il primo diritto che dovremmo difendere. La vera rivoluzione è impedire il trauma del distacco e della separazione. L’emigrazione che funziona è quella che si sceglie, non quella che ti strappa dalle tue radici. Il vero umanitarismo lotta contro la causa del dolore, non per perpetuarlo e poi lenirlo. Se si capisce questo, indurre l’emigrazione è un crimine, e l’accoglienza a ogni costo è speculazione.
Il problema è che si perde di vista il senso delle cose, si guarda il dito invece della luna. Le guerre depredano i continenti delle loro risorse e le migrazioni li svuotano privandoli delle intelligenze e delle braccia necessarie per una minima speranza di riscatto.
Nelle loro chiacchiere, i radical chic (quelli trés chic) auspicano la società aperta, la fusione delle culture e l’avvento di una nuova umanità senza confini né frontiere, un unico grande crogiuolo che dovrebbe nascere dal nulla, dove Storia e differenze perdono valenza e significato perché "divisive", in nome di un bene supremo che non si capisce bene cosa dovrebbe essere, ma è sicuramente destabilizzante per tutti; dall’altra cercano con ipocrita ostinazione l’unicità, l’eccentricità, la genuinità e le tradizioni, che poi non si capisce come potrebbero conservarsi o coltivarsi, le tradizioni, in questa idea di società “fusa”, aperta e senza frontiere.
Non sto insinuando teorie razziste: sto parlando di principi che dovrebbero essere semplicissimi, e sono così semplici che ormai si sono persi. Non c’è bisogno di scomodare teoremi, ma tantomeno di ripetere a pappagallo le parole d’ordine del globalismo economico. Il rispetto tra culture e tradizioni diverse, a dispetto di quanto ci viene fatto credere, è più alla portata e più economico della guerra, ed è alla base della pace, e comincia proprio dal rispetto dei confini.
L’abbattimento dei confini che persegue il nostro mondo “civile” serve a liberare la circolazione del denaro, non degli uomini.
(spunto preso da un post di Davide Rossi)

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