Ancora e poi ancora quel solito dilemma…


Abbiamo già parlato – almeno un altro paio di volte – di questo eterno dilemma: cosa devono fare i nostri piccoli paesi e le piccole comunità per ritrovare una prospettiva di futuro? Possiamo immaginare nuovi modelli sociali? O dobbiamo per forza lasciarci sopraffare da quello che a volte siamo portati a considerare un ineluttabile destino: la lenta ma inarrestabile evanescenza? Possiamo sperare in nuovi sviluppi delle zone rurali o dobbiamo rassegnarci alla inesorabile asfissia a favore della logica delle metropoli?
È davvero una questione difficile, in particolare di questi tempi di grande incertezza in cui anche quelli che sembravano modelli di sviluppo inattaccabili si rivelano invece precari e fragili per motivo delle mutate condizioni storiche. Per tanti motivi non ho risposte, naturalmente.
Direte voi: e allora che ne parli a fa’? Semplice: posso aggiungere altre domande.
Non faccio per vantarmi, ma… non sono un sociologo e non sono esperto di nulla. Vivo in una metropoli e per forza di cose non posso avere certe sensibilità, e in generale, ammesso che esistano, sarebbe sempre meglio che le soluzioni non venissero dalla stessa prospettiva da cui viene il problema!

Dunque, non solo non ho ricette, ma anche se le avessi preferirei che le cercasse chi il problema lo sente sulla propria pelle. Se ne parlo ancora, è solo perché ho appena finito di leggere un libro molto bello e stimolante di un autore che su questo dilemma ha elaborato tante riflessioni, e io vorrei semplicemente condividerne qualcuna, senza presunzione e, semmai, nella speranza di offrire qualche spunto a chi avesse voglia di cercarle, le soluzioni…
Il libro, di Enrico Camanni, si intitola “La montagna sacra”. È un regalo di Marilisa, che ringrazio infinitamente per la scelta azzeccatissima. Come si può dedurre dal titolo, il libro parla di montagne e di passione per quegli scenari fantastici, e dei problemi che affliggono questo ecosistema così fragile quando si persegue un modello di sviluppo basato sulla crescita economica incondizionata, quando si perde di vista il rispetto della natura e delle persone che la abitano e si finisce per rispondere solo ed esclusivamente alle perverse logiche del profitto.
Si chiede l’autore: “Le montagne esistono perché noi possiamo scalarle, camminarci e sciarci? Perché altre culture, dall’Himalaya alle Ande, hanno immaginato l’esistenza di montagne sacre, luoghi da cui l’uomo deve restare lontano?”.
Spero che Enrico Camanni mi perdonerà se saccheggerò il suo libro, se stralcerò alcune sue riflessioni e le userò come allegorie per costruire le mie, “traslandole” dalla realtà che lui descrive perché conosce bene – come alpinista, giornalista e scrittore di esperienza – alla realtà di cui voglio parlare io, quella dei paesi e delle piccole comunità rurali vissute nella scarsità e rimaste ai margini del travolgente sviluppo degli ultimi decenni, e che al successo della cultura della metropoli hanno contribuito con il sacrificio di tanta emigrazione. Due realtà certamente non perfettamente sovrapponibili, ma che secondo me presentano molte analogie, per le quali, con i dovuti opportuni (e anche inopportuni!) adattamenti, ho creduto potessero valere considerazioni simili. Valutate voi.

Il significato della montagna sacra
Se sulle carte geografiche non esistono più spazi bianchi e inesplorati, in montagna non esistono più vette inviolate, in particolare sulle Alpi. Ogni anno, di pari passo con la scomparsa della neve, aumentano gli impianti di risalita a quote assurde e non si arrestano i disegni speculativi. Anche la cultura alpinistica, un tempo attenta a definire dei limiti per garantire il proprio futuro, sta accettando una sempre maggiore spettacolarizzazione e una competizione senza più vincoli: no limits. Contro questa deriva, nel 2022 è nata una proposta che ha scosso tutta la comunità alpinistica italiana: scegliere una cima e dichiararla “sacra”, impegnandosi a non salirla, a non calpestarne più la vetta. La proposta ha scatenato un acceso dibattito e ha diviso il mondo degli ambientalisti e dei frequentatori della montagna – e non solo – tra chi la ritiene un saggio tentativo per ritrovare il senso del limite che abbiamo perso e chi invece la considera un “attentato” alla libertà individuale di scalare, camminare o abitare la montagna designata, anche se la proposta non prevede nessun divieto, nessuno sbarramento, nessuna sanzione. L’acceso dibattito è così diventato presto lo specchio del conflitto tra due modi di vedere, vivere e concepire la natura: la casa dell’uomo da curare e rispettare, o una cosa dell’uomo da usare a piacimento e tornaconto, da trasformare fino a stravolgerla, se è il caso. Praticamente, la rappresentazione della contrapposizione di due mondi.

Eppure i valligiani degli anni ‘60 sognavano i condomini, li volevano, li pretendevano, perché erano una risposta allo spopolamento, una specie di risarcimento tardivo per la fatica del resistere e restare, la garanzia che almeno qualcuno rimarrà ad abitare il paese e qualche giovane metterà su famiglia, che nasceranno dei bambini e si ripartirà. Il fatto che i condomìni fossero uguali a quelli delle città appariva come una garanzia in più e non una scelta invasiva, perché la città è vincente e la valle è perdente, così povera che la gente è costretta ad andare in città.
Negli anni del boom economico e turistico è tutto un viaggio a doppio senso: i valligiani emigrano attratti dal posto fisso delle fabbriche e i cittadini salgono in cerca di svago, emozioni e aria pura. Chi ha troppo e chi non ha più niente. È il paradosso delle valli sempre più abbandonate e prive di mezzi di sussistenza proprio accanto a centri paragonabili a “luna park”, super popolati per due o tre mesi all'anno, attrezzati di tutto punto con cinema, pizzerie, boutique e locali notturni. Uno strano mondo in cui la tradizione aleggia in forma di fantasma, presente ormai solo nei nomi dei bar o di qualche balzano ritrovo alla moda, nelle fotografie che sbiadiscono alle pareti dei ristoranti, nelle facce sbalordite dei valligiani sospesi tra una civiltà e l'altra, un passato perduto e un futuro inaspettato. «È un miracolo che non siamo dovuti andare via», si compiacciono gli abitanti delle località baciate (o offese?) dal turismo di massa, benedicendo i capitali esterni e gli investimenti. Ma dove gli investimenti non sono arrivati, le borgate contadine cadono a pezzi e sembra svanita ogni speranza di futuro. «Qui abbiamo di che vivere e lavorare», gioiscono i residenti delle stazioni invernali, chiudendo due occhi sul territorio devastato, «e di soldi ce n'è anche per chi viene da fuori». Quello che ai cittadini (responsabili e complici) sembra la fine del sogno romantico e la cancellazione del mondo arcaico, a molti valligiani appare come il riscatto per i torti subiti, un'insperata occasione per colmare la distanza economica tra valle e città.

Il percorso di “valorizzazione” è esemplare sulle Alpi Liguri, dove cade tanta neve anche se il mare è vicino. Nel 1900 Frabosa conta più di 2.400 abitanti, dimezzati nel secondo dopoguerra. L'economia della castagna è povera, la gente va via. L'emorragia si arresta proprio quando le boscose valli del Monregalese sembrano destinate alla desertificazione, perché arrivano gli imprenditori liguri. Investono negli sport invernali, nascono impianti e centinaia di appartamenti e seconde case, Frabosa cambia come Frankenstein: da paese contadino diventa un pezzo di Cuneo, o di Genova, o di una città inventata. L'economia della sussistenza si tramuta in imprenditoria edile e industria turistica; se padri e madri vivevano di castagne, i figli sono maestri di sci, baristi, ristoratori, locatari, mediatori. Sembrerebbe che il nuovo mondo si sovrapponga al vecchio, annullandolo, ma in realtà i due mondi convivono e si ignorano, perché i contadini non capiscono i turisti e i cittadini non si rendono conto di cosa ci fosse prima, lassù, sotto l'asfalto dei parcheggi. Frabosa resiste allo spopolamento perché molti giovani restano cambiando cultura, mentre i meno giovani continuano a considerare il turismo come un alieno caduto dal cielo, senza alcun legame con il paese e la terra. Le due storie non si sovrappongono: restano impermeabili. D'altra parte, come si può pretendere che un montanaro si appassioni a liturgie ultraurbane come la festa di apertura della stagione sciistica? Il linguaggio è urbano, il progetto è urbano, l'esito è urbano: come stupirsi che in tutto questo edificare dalle Alpi Liguri alle Giulie, l'industria degli sport invernali imiti le stesse fabbriche di pianura che accolgono gli esuli valligiani? Il turismo di massa è finanziato, controllato e gestito da un sistema imprenditoriale estraneo. Come ogni industria, deve crescere di continuo per reggere la concorrenza, se si ferma è perduto. Crea posti di lavoro, ma è lavoro alieno, per lo più gestito dall'esterno e condizionato da investimenti e dinamiche lontane che spesso perdono di vista il luogo e addirittura lo scopo.
E poi c’è un paradosso, di natura culturale: il mercato del turismo offre tagliatelle alla bolognese e pesce di mare a dei turisti che si illudono di prendere parte a un’arcaica rappresentazione perché le pareti dei locali sono di legno, il legno odora di resina e vi pendono vecchi oggetti contadini: zappe e rastrelli, slitte da lavoro, racchette da neve. Il nuovo deve apparire antico per soddisfare la nostalgia, ma allo stesso tempo il rustico deve contenere il lusso, la modernità e il comfort. La commedia è recitata da autoctoni in “maschera” e cittadini in abito da sera, che solitamente rimpiangono la montagna del bel tempo andato senza muovere un dito contro le speculazioni del presente. Il turismo intensivo tocca il vertice, per qualcuno, e il fondo, per qualcun altro. Niente riuscirà a ridurre l’abissale distanza tra il mondo di sotto e quello di sopra, due ambienti separati, sigillati. Il turista è estraneo al luogo in cui alloggia, ignaro della società che vive fuori; non conosce gli abitanti perché non si spinge oltre la struttura che lo accoglie, lo protegge e lo isola.

Liberi e insaziabili
Alexander Langer, giornalista, saggista, ambientalista e pacifista italiano, perorava la causa della conversione ecologica, per la quale si battè nei Colloqui di Dobbiaco, punto di incontro tra visioni e culture diverse in cui non solo si affrontavano tematiche ambientali e sociali come il significato e l’uso del denaro, il benessere, lo sfruttamento del suolo, il turismo dolce, la conversione dell’economia verso principi di condivisione e solidarietà e l’etica dell’impegno sociale ed ecologico, ma si proponevano anche soluzioni concrete. Secondo Langer, le pratiche dello sviluppo “tossico”, quello che dimentica l’uomo e la natura, sono portatrici del paradosso dell’ “impoverimento da benessere”. Sono passati diversi decenni, ma il pensiero di Langer appartiene sostanzialmente ancora al mondo delle utopie, non perché sia irrealizzabile, ma perché nell’immaginario collettivo è passato il principio per cui la competizione è crescita e quindi benessere, mentre la solidarietà è ripiego, rinuncia, ed evoca una perdita. Secondo Langer, l’impoverimento da benessere non è un problema economico, ma una serissima questione di valori: mai, nella storia dell’umanità, si è registrata una distanza così abissale tra la conoscenza e il progetto politico come nei nostri tempi. Forse nemmeno il governo più oscurantista e conservatore è mai riuscito a imbrigliare per mezzo secolo la forza equilibratrice della ragione. Ce l’ha fatta una civiltà “libera” e insaziabile, evoluta e disincantata, frenetica e rassegnata.
Non a caso, quando parlava di nuove politiche ecologiche (oggi si direbbe “green”), Langer sceglieva il termine “conversione” piuttosto che “rivoluzione”, perché indica il passaggio ad una più alta consapevolezza e comporta il coinvolgimento personale. Conversione, infatti, non è solo un termine usato nell’economia, ma è anche e soprattutto un termine spirituale.

Ma le montagne, le valli e le aree geografiche tralasciate dall’ondata del “benessere” in qualche caso danno segno di cambiamento, non tanto per ciò che riguarda le politiche dei grandi progetti e investimenti, che sono rimasti praticamente gli stessi e continuano a ripetere gli stessi errori, quanto per i progetti secondari, mirati, che risultano spesso invisibili, forse perché talvolta presentano risvolti positivi, più probabilmente perché hanno una genesi e una dimensione locali.
Il cambiamento riguarda le aree solitamente ignorate e dimenticate, scavalcate dai flussi turistici, luoghi apparentemente “perdenti” che qualche volta tornano al centro di movimenti di “nuova resistenza” ai modelli dominanti che hanno decretato la crisi o le effimere fortune delle zone rurali oggetto (o vittime?) degli interventi di trasformazione in “divertimentifici”. La grande mutazione attiene al piccolo: piccoli comuni, piccole comunità, piccole aree. Tocca più i significati che le strutture, insomma le persone e le storie.
Il confronto, la conversazione, il dialogo, la parola, sono le prime “infrastrutture”. Nel 1991, a Succiso, un piccolo paesino in cima all’Appennino Tosco-Emiliano che tra gli anni ‘50 e i ‘90 aveva perso quasi mille abitanti, riapre il bar. Quel luogo di aggregazione risponde a una necessità sociale prima che economica: le persone devono avere un posto per reincontrarsi e trasformare in valore e valori contemporanei il patrimonio e le tradizioni dismesse. Un bar può essere l’inizio di un percorso, perché la vera innovazione nasce sempre dall’incontro e dal dialogo. Se le persone condividono un progetto e lo sentono loro, è probabile che succeda qualcosa. Altrimenti è solo questione di soldi, mode e rapporti di forza, e prima o poi qualcosa si rompe. Affinché le aree rurali possano immaginare un futuro abitato per viverne gli spazi e non semplicemente per occuparli per consumarne le risorse, occorre una comunità che possa dirsi tale perché ancora capace di trasformare il patrimonio materiale in vita. L’esempio del bar di Succiso e di tanti altri piccoli semi in attesa di germoglio è la storia delle cooperative di comunità: un’esperienza di ripopolamento sperimentata qua e là sui monti dell’Appennino da chi cerca davvero nuovi modelli di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Agli investimenti in denaro delle multinazionali (del turismo o dell’alimentazione) si contrappone l’investimento in saperi e valori delle comunità interne, in paesi e borgate poco rinomate, dove si incontrano le persone che decidono di restare e le altre che arrivano per abitarle. Vecchi e nuovi residenti tenuti insieme non da un diritto di nascita o una prelazione di luogo, ma dalla comune volontà di vivere in montagna o in campagna, accomunati dalla vocazione e dall’intenzione, a prescindere dalla provenienza. Come i valligiani di un tempo, imparano molti mestieri e diffidano del turismo intensivo e di ogni monocultura; come i giovani di oggi, si muovono agevolmente tra la motozappa e il computer, sanno fare il pane, amano coltivare la terra, allevare animali e far crescere i sogni. Non sono ambientalisti per ideologia, ma rispettano la natura per scelta di vita. Non sono amici del turismo di massa, perché cercano e vogliono un’altra montagna e campagna. Ecco il punto: non è più l’industria turistica ad attrarre i nuovi abitanti, ma si potrebbe azzardare che sia il suo contrario, o meglio un mix di agricoltura, turismo, produzione culturale e molte altre cose. Su tutte, comanda lo scambio. Il territorio che risponde è quello interno, ma la domanda viene da fuori, anche quando espressa da nativi o “ritornanti”. Occorre quindi accelerare e sostenere canali di comunicazione fra l’interno e l’esterno della comunità, occorre sostenere la contaminazione, occorre coltivare l’idea di questo cambiamento. La filiera corta della conoscenza che riporta al territorio ha senso solo se si riconnette alla filiera lunga contemporanea.

Le storie si ripetono con disarmante monotonia e senza la vigorosa opposizione di qualche rompiscatole finirebbero sempre con la sconfitta delle aree più deboli. Sembrano cronache di guerra in cui i contendenti appaiono asserragliati nelle rispettive trincee. Sempre lo stesso copione, da un capo all’altro delle Alpi. Gruppi finanziari di dimensioni nazionali e più spesso multinazionali individuano lembi di terra ancora da sfruttare e, lancia in resta, iniziano ad arruolare i comitati d’affari, macchine movimento terra, progettisti e imprenditori, speculatori di ogni risma. Agli abitanti del posto si prospettano opportunità di sviluppo alberghiero, manifatturiero, commerciale e immobiliare, tralasciando le perdite dal punto di vista ambientale e l’impatto irreversibile sulle altre forme di turismo. Tutti sanno che nulla è gratis, che l’industria è sostenuta dal denaro pubblico, cioè nostro, ma si fa finta di niente perché dà lavoro e alimenta gli investimenti: nuovi collegamenti, nuovi residence; però vecchie idee e vecchissime conventicole di affaristi che non vogliono guardare da un’altra parte perché non ne sono capaci o non possono.

Che fare, dunque, perché i nostri figli e i figli dei nostri figli non siano condannati a pagare scelte insensate? Come riempire questo sconfortante vuoto di idee e visioni? Dopo tanti anni siamo ancora alla ricerca di una “terza via” alternativa all’abbandono e alla “gentrification”. Il termine, ovviamente inglese, sta per “borghesizzazione”, un concetto sociologico usato per indicare la progressiva trasformazione socioculturale di un'area tipicamente urbana (ma che per semplicità ho deciso di applicare in modo più esteso anche alle zone rurali) da proletaria a borghese a seguito dell'acquisto di immobili e alla loro conseguente rivalutazione sul mercato, da parte di soggetti abbienti che, spesso, ne cambiano la destinazione d’uso, tipicamente da abitativo a foresteria o casa-vacanza.
Ma che non ci sia un’alternativa è vero solo in parte, la situazione nel frattempo è cambiata, anche se non è sempre facile coglierne i segnali. Per esempio, da qualche tempo sembra rallentata la corsa alla museificazione, anche se si colgono periodiche ondate di nostalgia e si insiste nel mettere a valore le testimonianze del passato a scapito del presente. La tendenza all’urbanizzazione è forse meno sfrontata di una volta, corretta da nuovi criteri architettonici e culturali. Si pensi poi al recupero della cucina locale, che nell’altro secolo era addirittura considerata una vergognosa povertà da rimuovere. Però sono cadute anche certe “antiche” sicurezze, come quella dell’occupazione sicura, e in questo le aree rurali hanno finito per assomigliare alla “metropoli”.

La parola chiave è “limite”, il più grande tabù della società occidentale. Non se ne parla mai, come non si parla della malattia, della vecchiaia, della morte e di nessun’altra “finitudine”. La dottrina economica fondata sulla crescita inarrestabile ha plasmato le menti e i pensieri dei consumatori negli ultimi decenni. Con l’inganno dello sviluppo infinito in un mondo finito, è cresciuta anche l’illusione dell’eterna giovinezza, o della perpetua incompiutezza, generando una cultura talmente fragile da non essere più in grado di affrontare la propria fragilità.
Il turismo, così come ogni attività che assuma connotato di industria, non è più l’esito della libera scelta delle persone, ma è fortemente condizionato dal marketing che induce la nascita di nuovi bisogni. Il mercato del turismo è eterodiretto dagli interessi, influenzato da una bulimia distruttiva: il deltaplano, il parapendio, le tute alari, il downhill, le mountain bike, il canyoning, il fun bob, le fat bike, il free ride, i parchi avventura, il rafting, il kayak, l’hydrospeed. Tutto all’insegna del no-limits, un mantra anche pericoloso. Non si va in cerca di un luogo, ma della sua fama. Un po’ come chi viene a visitarci perché… il Molise non esiste. Trovata geniale, ma… attenzione! Va bene tutto, finché si sta dentro il limite. Finché il turismo non diventa una sorta di rito profano certificato dalla quantità degli officianti. I flussi turistici sono ardui da gestire e compromettono gli ambienti, senza contare che chi ha la sfortuna di abitare su una rotta di richiamo si sente espropriato in casa propria.

Conclusione?
Sono consapevole che non tutto quanto ho qui riportato – stralciato dal libro di Camanni e riadatatto – sia perfettamente sovrapponibile alla realtà dei nostri piccoli paesi. Certamente, risulta difficilmente immaginabile che le logiche spinte del “turismo industriale” possano essere applicabili – sia nel merito che nelle proporzioni – al nostro amato Molise e, in particolare, a Monacilioni, ma… hai visto mai! Ma a parte gli scherzi e a parte tutto, come ho scritto in premessa qui mi piaceva semplicemente condividere il racconto di alcune esperienze di “trasformazione” tentate in alcune aree italiane relegate – diciamo così – a periferia delle metropoli, e del relativo esito. Non esistono ricette “giuste” per risollevare le sorti delle zone rurali e ritrovare una prospettiva di futuro, e anche se esistessero sarebbe comunque pretenzioso da parte mia formularle.
D’altra parte… cosa è realmente desiderabile? La ricchezza a qualunque costo – ammesso e non concesso che sia raggiungibile – o una vita dignitosa, libera dai bisogni primari? Ci servono davvero le industrie o tutte quelle cose lì che ci risucchierebbero nella perversa logica del profitto a vantaggio di altri? O vogliamo semplicemente vivere “del nostro”, rimanendo noi stessi?
E allora... lasciatemi almeno azzardare una “non-ricetta”, ovvero ciò che non andrebbe fatto se si hanno a cuore questi obiettivi. Prendo ancora a prestito una riflessione, questa volta di Reinhold Messner, il quale sostiene che qualsiasi tentativo di rivitalizzazione delle aree rurali non può e non deve passare per la cannibalizzazione delle risorse naturali, né della trasfigurazione del territorio. Niente sprechi, o emulazioni, o individualismi o interessi particolari, ma rispetto della natura e degli uomini, spirito comunitario, solidarietà, fantasia e inventiva. No alla rincorsa della modernità, ma anche a una smodata museificazione delle tradizioni. Però sì, spazio a un sereno e pacato orgoglio delle proprie origini, di ciò che siamo e di ciò che sappiamo fare.
Ci sono cose che sappiamo fare bene come nessun altro. È su questo campo che va giocata la “partita”, ognuno per la propria parte, compresa la politica. Bisognerebbe rendere attrattivo ciò che siamo e che sappiamo fare, e se possibile “farlo sapere”, esportarlo altrove. Esportare il meglio, non importare il peggio.





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