Puoi scegliere tra morire dentro o morire e basta

 

C'è una questione che a periodi alterni guadagna la ribalta delle cronache e alimenta quel tipo di dibattito che in più di un’occasione riesce a mandarmi ai matti. Per me, è una sorta di "cartina tornasole" che mi informa in un batter di ciglia del livello di indottrinamento subliminale, dell'assimilazione del buonismo e dell'ipocrisia dei “benpensanti” - per dirla come l’avrebbe detta Gaber – cioè di coloro che brillano per il pensiero “smart”, “up-to-date”, “aware”, “balanced”… In altre parole, di chi è allineato con l’agenda mondialista corrente.
La questione si chiama: migrazioni.
Naturalmente non parlo delle migrazioni per scelta, ma di quelle conseguenti allo spossessamento delle terre perpetrato dal globalismo delle multinazionali. Il mito del capitalismo capace di “autoregolarsi” che ci è stato venduto fino all’altro ieri, invece di stemperarne l’aggressività, l’ha portato a livelli parossistici, al punto che oggi non solo la terra, ma anche la vita delle persone è diventata risorsa di cui appropriarsi. Il capitalismo si autoregola, eccome, ma sempre solo a suo vantaggio. È la sua natura. L’obietti­vo è lo stesso di sempre: svuotare i Paesi della propria gente per avere campo libero per la conquista, cioè per lo sfruttamento delle risorse, siano esse ricchezze del territorio o posizioni geostrategiche funzionali al contollo delle aree di interesse. Di pari passo con lo svuotamento dei territori, la disinformazione svuota le menti delle genti che quei terri­tori li abitano, per annichilirne la resistenza. Con il dominio e il controllo dell’informazione, la logica perversa e spietata del capitale persegue il duplice obiettivo di svuotare i territori da conquistare e destabilizzare i Paesi “avanzati” con l’immissione del famoso ”esercito di riserva” di marxiana memoria. Dovunque vadano, le multinazionali non investono mai più del 5% dei guadagni nei territori che saccheggiano, demolendo di fatto qualsiasi possibilità di sviluppo delle economie locali.
La politica a tutti i livelli, poi, ne appoggia le gesta quasi sempre, semplicemente disconoscendo i problemi da esse causati. Ad esempio, per l’Onu non esiste lo status di rifugiato climatico, e la protezione internazionale è concessa solo a chi fugge dalla guerra, disinvoltamente trascurando che la deprivazione dei territori è a tutti gli effetti una guerra. Chi scappa da un territorio distrutto non lo fa per i fenomeni atmosferici, ma per un modello di sviluppo che di quella distruzione è la causa.
Da un lato la becera xenofobia di chi vorrebbe un "Paradiso" circondato da confini e muri invalicabili; dall’altro il “sogno” della “società globale” nella quale si può muovere liberamente qualsiasi cosa, tranne le persone. La doppia narrazione è l’ipocrita maschera, come al solito, di un dibattito solo apparentemente aperto, che alimenta un’idea di società libera in cui tutte le posizioni sono possibili e rappresentate, in realtà entrambe funzionali al capitale, entrambe controproducenti per il benessere delle popolazioni. Accuratamente, i media trascurano una terza visione, che sarebbe poi la più naturale, la più facile e anche la meno costosa in termini sia di denaro che di vite umane: il rispetto delle differenze e dei confini, che è il punto di partenza della pace. Un’autentica ipocrisia del capitalismo, che si accompagna a quella dei confini sociali che vengono continuamente eretti al fianco oppure indipendentemente da quelli geografici e politici. Non si accetta l'idea che a muoversi siano i poveri, che a lottare contro l’agenda globalista siano le classi subalterne che, secondo la visione coloniale, dovrebbero rimanere "ferme e zitte". Un tipo di razzismo che è il più feroce di tutti, ma il meno riconosciuto e raccontato: è il “razzismo verticale”, quello tra classi. 
Nel piccolo, il dilemma si ripropone e ritrova nelle chiacchiere dei razzisti “evergreen” e dei loro giurati “rivali” radical chic. I primi, ottusi ma riconoscibili; i secondi, acuti ma impostori, spesso inconsapevoli, perché da una parte auspicano la società aperta, la fusione delle culture e l’avvento di una nuova umanità senza confini né frontiere, un unico grande crogiuolo che dovrebbe nascere dal nulla, o meglio da un tutto opportunamente mischiato (disciolto?), dove Storia e differenze devono perdere significato e valenza perché divisive, in nome di un bene supremo che non si sa bene cosa dovrebbe essere, ma è sicuramente destabilizzante per tutti. E poi dall’altra cercano con ipocrita ostinazione l’originalità, l’unicità, l’eccentricità, la genuinità e le tradizioni, che poi non si capisce bene come potrebbero conservarsi o coltivarsi, le tradizioni, in questa idea di società aperta e senza frontiere, di calderone culturale, di “blob”.
Non si tratta di essere razzisti, ma nemmeno di ripetere a pappagallo le parole d’ordine del globalismo economico. Il rispetto tra culture e tradizioni diverse, a dispetto di quanto ci viene fatto credere, è più alla portata e più economico della guerra, è alla base della pace e comincia proprio dal rispetto dei confini. Le picconate ai confini, spesso presentate come nobile anelito di libertà, in realtà liberano la circolazione del denaro, non degli uomini.
Il dolore dell’emigrazione lo conosce e lo capisce bene chi l’ha sperimentato sulla propria pelle, o al massimo le prime generazioni successive. Un’emigrazione scelta liberamente lascia in fondo all’anima quel tipo di sgomento che tutti chiamiamo nostalgia, figuriamoci cosa produce un’emigrazione forzata, una vita spezzata. Nelle terre di approdo si può anche trovare successo e integrazione, ma la terra dei natali non si dimentica, la lacerazione non si rimargina, la ferita di una patria che soffre per la guerra e lo sfruttamento non smette mai di sanguinare.
Quando sento dire che l’unica soluzione all’emi­grazione è l’accoglienza, oltretutto vantaggiosa per tutti, allora mi monta la carogna. L’accoglienza come unico approccio alle crisi migrato­rie, unico modo per restare umani. Mi dispiace, non ci sto: non è questo il nocciolo della questione. Per chi è “aware” e “balanced”, sia chiaro: l’emigrante in pericolo va soccorso, salvato e protetto, ma la cosa più giusta da fare non è accoglierlo, bensì rispettare lui e la sua storia. Non è accogliendo gli esuli dopo aver svuotato terre e continenti che si semina amore e riconoscenza.
L’emigrazione non è ineluttabile, anche se vogliono farcelo credere. Il primo vero diritto di ogni singolo essere umano non è emigrare, ma restare. Nessuno sano di mente metterebbe il diritto di essere accolto in una terra lontana e sconosciuta davanti al diritto a un futuro nel­la propria terra. Come abitanti del cosiddetto Primo Mondo, è questo il primo diritto che dovremmo difendere. La vera rivoluzione è impedire il trauma del distacco e della sepa­razione. Il vero umanitari­smo lotta contro la causa del dolore, non per lenirlo e poi perpetuarlo. E se si è d’accordo su questo, allora occorre riflettere anche sul pericolo delle derive: indurre l’emigrazione è un crimine, e l’accoglienza a ogni costo è speculazione.

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